Il deinfluencing nasce da un marketing che ha privilegiato l’apparenza rispetto alla competenza: molte aziende si sono affidate a influencer privi di reale preparazione, ottenendo l’effetto opposto e perdendo fiducia e credibilità.
Il fenomeno si è sviluppato come reazione al bombardamento quotidiano di contenuti sponsorizzati e consigli poco autentici che affollano i social. A differenza dell’influencer marketing tradizionale, chi fa deinfluencing non dice “compra questo”, ma piuttosto “ne hai davvero bisogno?”, oppure, “è davvero un prodotto di valore?”.
È una forma di contro-narrazione che invita a fermarsi, riflettere e valutare con maggiore consapevolezza prima di acquistare. Un messaggio semplice ma potente: non tutto ciò che diventa virale è utile o necessario.
Questa tendenza non nasce da un rifiuto totale dei prodotti o dei brand, ma da una crescente esigenza di trasparenza. Spesso chi fa deinfluencing spiega perché un prodotto non vale l’hype, propone alternative più economiche, oppure suggerisce di non comprare affatto se non è davvero necessario o se il prodotto è di scarsa qualità. Il fenomeno è quindi strettamente legato al consumo consapevole, al minimalismo e, in parte, anche alla sostenibilità.

Quando è nato il deinfluencing e da dove arriva
Il deinfluencing ha iniziato a farsi notare all’inizio del 2023, soprattutto su TikTok. I primi video virali mostravano creator che elencavano prodotti sopravvalutati, spesso famosi solo per la loro popolarità. Frasi come “non sprecare i tuoi soldi su questo” o “non hai bisogno di comprarlo solo perché lo vedi ovunque” hanno colpito nel segno.
Da lì, il trend è esploso: si è diffuso anche su Instagram, YouTube e blog, diventando parte di un discorso più ampio sulla consapevolezza nei consumi. Alcuni creator hanno fatto del deinfluencing un vero e proprio format ricorrente, spesso accompagnato da recensioni oneste o alternative più sostenibili e accessibili.
Il beauty e la skincare sono tra i settori più colpiti, ma il deinfluencing si estende anche a moda, tecnologia, lifestyle e persino prodotti finanziari.
Perché l’influencer marketing sta stancando
Il successo del deinfluencing non è un fenomeno isolato, ma emerge in un contesto di saturazione. Gli utenti sono ormai esasperati da contenuti promozionali, spesso mascherati da consigli spontanei ma percepiti come costruiti e privi di autenticità. Questa consapevolezza ha affinato il loro spirito critico, portandoli a una crescente diffidenza.
Una delle ragioni principali di questa sfiducia risiede nell’incompetenza di molti influencer. Selezionati principalmente per i loro numeri, spesso mancano di reale interesse e conoscenza approfondita dei prodotti che promuovono, limitandosi a veicolare slogan anziché esperienze concrete. Questa superficialità mina la loro credibilità ma, soprattutto, la credibilità di prodotti e aziende.
Inoltre, molti contenuti sponsorizzati sfruttano dinamiche psicologiche insidiose, rivolgendosi a chi nutre insicurezze e un senso di inadeguatezza. L’acquisto diventa così un tentativo di colmare un vuoto interiore, reale o indotto, anziché rispondere a un bisogno genuino. La responsabilità, però, non ricade solo sugli influencer; una parte l’ha anche chi si lascia influenzare, spesso mosso da bassa autostima e dal desiderio di emulare modelli di vita idealizzati. Il deinfluencing irrompe in questo schema, invitando a una riflessione critica sull’utilità reale degli acquisti e ristabilendo la centralità di una scelta consapevole.

Il deinfluencing è contro l’influencer marketing?
Il successo del deinfluencing non è casuale. Gli utenti sono ormai saturi di contenuti sponsorizzati e affiliazioni, e anche i consigli più spontanei vengono percepiti come costruiti e poco autentici. Questo ha portato a una crescente sfiducia nei confronti degli influencer, soprattutto a causa dell’incompetenza di molti di loro.
Molti sono scelti solo per i numeri, senza considerare la loro reale affinità con i prodotti che promuovono. Spesso non conoscono i prodotti, non li testano, eppure ne parlano come esperti, il che rende la comunicazione vuota e priva di valore.
Questi contenuti fanno leva su un meccanismo psicologico: l’insicurezza di chi si sente “indietro” rispetto ai trend, desiderando approvazione e cercando di colmare un vuoto con acquisti non consapevoli. Il deinfluencing rompe questo schema, invitando gli utenti a riflettere su ciò di cui hanno davvero bisogno e a fare scelte più consapevoli e in linea con le proprie reali esigenze.
Come il deinfluencing può convivere con il marketing
Il deinfluencing non è un attacco agli influencer, né al marketing o alle aziende. Al contrario, è un invito a comunicare in modo più onesto e responsabile. Molti creator hanno adottato questa tendenza per ristabilire un rapporto autentico con la loro community, promuovendo trasparenza e fiducia.
Non si tratta di demonizzare il consumo, ma di incoraggiare una riflessione su ciò che è davvero utile, sostenibile e coerente con i propri valori. In questo senso, il deinfluencing può convivere con il marketing, a patto che sia guidato da principi etici.
Può anche dare visibilità a brand emergenti, soluzioni alternative e prodotti di nicchia, spesso oscurati dal rumore delle tendenze virali.
Un modo intelligente per un’azienda, anche affermata, che ha scelto influencer inadatti, è quello di rivolgersi a chi è più onesto nei propri giudizi e recensioni. Questo approccio aiuta a ristabilire la credibilità del brand e a costruire relazioni autentiche con un pubblico sempre più critico.
Il Deinfluencing: un alleato per un consumo più saggio?
Il deinfluencing possiede il potenziale per trasformare positivamente le nostre abitudini di consumo, contrastando la tendenza agli acquisti impulsivi e incoraggiando un approccio più ponderato.
Anziché cedere alla logica dell’accumulo indiscriminato, induce a una riflessione più profonda sull’effettiva necessità di un prodotto, sulla sua coerenza con i nostri valori personali e sulla sua probabile durata e utilità nel tempo. Questa inversione di tendenza promuove un consumo più ragionato e meno emotivo.
In un’epoca segnata dalla crescente consapevolezza delle sfide ambientali e dall’importanza di principi come la sostenibilità e l’economia circolare, il deinfluencing assume anche una valenza etica significativa. Ridurre gli sprechi e concentrarsi su acquisti mirati non giova solamente al pianeta, ma contribuisce in modo tangibile al nostro benessere individuale.
Un minor numero di oggetti superflui si traduce in meno disordine fisico e, di conseguenza, in una riduzione dello stress e del senso di colpa associato a un consumo eccessivo. Liberare spazio materiale significa, in ultima analisi, guadagnare spazio mentale, favorendo una vita più leggera e focalizzata sull’essenziale.
Il deinfluencing, in questa luce, si configura come uno strumento prezioso per riappropriarci del controllo sulle nostre scelte di consumo e per promuovere uno stile di vita più consapevole e sostenibile.
Deinfluencing in azione: quando la realtà smaschera l’hype
L’ondata di video deinfluencing che sta conquistando il web si concentra spesso sul “ridimensionamento” di quei prodotti che, alimentati da intense campagne di marketing e dal clamore dei social media, promettono risultati straordinari ma deludono le aspettative nella vita reale.
Questi contenuti agiscono come un contraltare critico all’universo patinato dell’influencer marketing tradizionale, mettendo in luce le discrepanze tra la presentazione idealizzata e la reale performance dei prodotti.
Un esempio emblematico si riscontra nel settore della skincare di lusso, frequentemente oggetto di analisi comparative impietose che ne evidenziano un’efficacia sovrapponibile a quella di alternative più economiche, smascherando spesso formulazioni simili vendute a prezzi esorbitanti.
Allo stesso modo, la categoria degli oggetti tech “innovativi” reperibili online è spesso passata al vaglio, rivelando una funzionalità limitata o una durata effimera ben diversa dalle promesse iniziali.
Il mondo del makeup offre un terreno fertile per il deinfluencing: rossetti acclamati che compromettono l’idratazione labiale, fondotinta che esaltano la pelle unicamente sotto luci artificiali da set fotografico, o fragranze che riscuotono successo unicamente per un effetto “gregge”.
I deinfluencer non si limitano a un lapidario “non comprate”, ma argomentano le loro posizioni attraverso test pratici, confronti dettagliati tra prodotti simili (spesso evidenziando le alternative più convenienti ed efficaci), e condividendo opinioni basate sull’esperienza personale. Questo approccio analitico offre agli spettatori gli strumenti per una valutazione più autonoma.
Anche l’industria della moda è nel mirino, con particolare attenzione ai capi di fast fashion che, pur onnipresenti sui feed social e attraenti in fotografia, rivelano una qualità scadente dei materiali e una confezione approssimativa una volta indossati.
Il messaggio sotteso è un invito a superare la mera adesione alle tendenze effimere: l’acquisto dovrebbe essere guidato da una reale affinità con il proprio stile e da considerazioni sulla qualità, piuttosto che dalla semplice imitazione di ciò che è popolare in un dato momento.
Attraverso queste critiche concrete, il deinfluencing mira a responsabilizzare i consumatori, incoraggiandoli a un approccio più consapevole e critico verso le promesse del marketing e le dinamiche dell’hype.

L’apparente altruismo del deinfluencing: un’analisi più profonda
Sebbene il deinfluencing si presenti spesso come un nobile scudo a difesa dei consumatori dalle trappole di acquisti indotti, è fondamentale analizzare alcune dinamiche.
A volte la critica aperta e la messa in discussione di prodotti virali possono rappresentare una strategia astuta per alcuni creator. Attraverso questa apparente onestà, essi mirano a consolidare la fiducia del proprio pubblico, per poi, in un secondo momento, orientarlo verso altri prodotti o marchi, magari in linea con le loro affiliazioni o interessi.
In questo scenario, la trasparenza diventa un imperativo etico: gli influencer devono dichiarare apertamente eventuali collaborazioni o potenziali conflitti di interesse per preservare l’integrità del proprio operato e la fiducia dei follower.
Parallelamente, si assiste a un’evoluzione nelle strategie dei brand. Le aziende stanno progressivamente abbandonando collaborazioni superficiali e a breve termine, privilegiando partnership più autentiche e durature con influencer che incarnino trasparenza e i cui valori risuonino con l’identità del marchio.
Questa inversione di tendenza è dettata dalla crescente consapevolezza che l’onestà e la credibilità rappresentano pilastri fondamentali per la reputazione aziendale agli occhi di un consumatore sempre più informato e smaliziato.
In un’era di facile disinformazione e crescente scetticismo verso il marketing tradizionale, l’autenticità si configura non solo come un valore etico, ma anche come un vantaggio competitivo cruciale.
Il confine tra genuina critica e astuta strategia di marketing nel deinfluencing è spesso labile, e la capacità di discernere le reali intenzioni dei creator e la trasparenza dei brand diventano elementi chiave per un ecosistema digitale più sano e affidabile.
Chi sono i creator che fanno deinfluencing (e che vale la pena seguire)
Uno dei volti italiani più riconoscibili in questo ambito è Andreea Tolomeiu, ovvero “L’influencer onesta“, che si è fatta conoscere proprio per il suo stile diretto e trasparente. Nei suoi video smonta l’eccessivo entusiasmo verso certi prodotti e racconta ciò che funziona davvero nella vita quotidiana.
Su TikTok e Instagram stanno emergendo anche altri profili che seguono la stessa linea. Alcuni nomi internazionali da tenere d’occhio:
- Stephanie Valentine (@glamzilla) – beauty creator canadese, amatissima per le sue recensioni senza filtri: non ha problemi a dire che un prodotto virale non le è piaciuto.
- @sabrinatanzer – su TikTok ha guadagnato milioni di visualizzazioni con la serie “things you don’t need”, dove smonta gli acquisti più pubblicizzati.
- @thefoldinglady – molto seguita nel mondo dell’organizzazione domestica, promuove un approccio minimalista e consapevole, lontano dall’accumulo di oggetti.
Spesso non usano nemmeno il termine deinfluencing, ma il concetto è chiaro: onestà, esperienza reale e nessun bisogno di spingere sempre qualcosa.
Cosa impariamo dal deinfluencing: riflessioni
Il fulmineo successo del deinfluencing illumina una verità inequivocabile: il pubblico non ambisce più al ruolo di mero spettatore passivo nel grande teatro del consumo. Emerge con forza il desiderio di discernimento, di comprensione autentica e di una voce che conti.
Il deinfluencing, in ultima analisi, scaturisce proprio da questa sete di autonomia intellettuale e consapevolezza nelle proprie scelte.
Riconoscere che la felicità e la realizzazione non risiedono nell’accumulo indiscriminato di ciò che popola gli schermi digitali rappresenta il primo passo cruciale verso un modello di consumo più equilibrato e profondamente umano.
Questa presa di coscienza offre al contempo un’opportunità inedita per ripensare radicalmente le fondamenta stesse della comunicazione commerciale, delle strategie di promozione e delle dinamiche di influenza.
Il deinfluencing non è solo una critica al marketing tradizionale, ma un invito pressante a un’interazione più onesta e responsabile tra brand, creatori di contenuti e consumatori.
Ci spinge a considerare un futuro in cui l’autenticità superi l’artificio, in cui il valore reale dei prodotti e dei servizi torni al centro del discorso, e in cui la fiducia si costruisca su una trasparenza genuina, aprendo la strada a un ecosistema digitale più sano e sostenibile per tutti.